Cancro ovarico e gene Angelina Jolie indagine Acto rileva solitudine delle malate

(di Nicola Simonetti) Cancro dell’ovaio, il sesto tumore più diagnosticato tra le donne e quello con il più alto tasso di mortalità (60-70%), che lo rende una delle prime 5 cause di morte femminile per tumore tra le donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni.

Il “Gene BRCA” denominato “Gene Jolie”:

Molto interesse ha suscitato questo tumore quando Angelina Jolie, sottoposta ad esame, riconosciuta portatore di un gene familiare che orientava verso il rischio elevato di tumore dell’ovaio che, di solito, coinvolge anche la mammella, si sottopose ad asportazione dei due organi. Una scelta coraggiosa di vita che trovò commenti favorevoli ma anche non concordanti.

In Italia 50.000 donne convivono con un tumore ovarico, le nuove diagnosi sono circa 6.000 all’anno con numeri in marcato aumento.

Per una donna colpita da tumore ovarico la scelta dell’ospedale dove farsi curare – dice Nicoletta Cerana, presidente di Acto, la rete nazionale di associazioni pazienti impegnata dal 2010 nella lotta contro questa neoplasia – è una vera e propria scelta per la vita.

Il tumore ovarico è la più grave ed eterogenea neoplasia ginecologica. Proprio per la sua complessità, il tumore ovarico dovrebbe essere curato solo in ospedali attrezzati per affrontare la malattia da tutti i punti di vista (diagnostico, chirurgico, terapeutico, infermieristico e psicologico-assistenziale) e capaci di rispondere a tutte le esigenze delle pazienti e dei loro familiari”.

Ma le cose stanno davvero così? Cosa pensano le pazienti degli ospedali in cui sono state curate? Come li valutano?

Secondo l’indagine condotta da ACTO onlus, 6 italiane su 10 non conoscono questa patologia, oltre il 70% ignora i sintomi e non sa a quali esami ginecologici dovrebbe sottoporsi per scoprirla in tempo. Per tale motivo, la diagnosi, nella maggior parte dei casi, giunge  sempre tardi, quando la malattia è in fase avanzata.

Per saperlo – dichiara Cerana –  abbiamo lanciato su Facebook la campagna #lospedalechevorrei- “Con poche e semplici domande, abbiamo indagato il  vissuto delle pazienti  in ospedale durante l’intero percorso di cura, dalla diagnosi alla terapia fino al periodo di follow up. Non è stato un sondaggio, ma piuttosto un colloquio guidato per capire come rendere “l’ospedale più ospitale”.

La campagna è stata seguita da oltre 90 mila persone e 150 donne hanno compilato il questionario fornendo le valutazioni e i suggerimenti che sono stati presentati al Senato  nel corso di un incontro cui hanno preso parte Istituzioni, esponenti della comunità medico-scientifica e del mondo advocacy.

Da queste esperienze – dice Silvia Gregory, referente di Acto Roma -si capisce che la professionalità è alta a conferma dell’eccellenza oncologica del nostro Paese, ma emerge anche la richiesta ai professionisti sanitari di una  maggiore umanità e attenzione ai bisogni psicologici”.

Rimane molto da fare per quel 20% di pazienti che non vede i propri bisogni soddisfatti” dice Domenica Lorusso  (Policlinico Universitario Gemelli IRCCS, Roma) – “e probabilmente questo potrà essere fatto implementando l’organizzazione e includendo altre figure professionali nel percorso di cura come psicooncologi e case manager”.

Le pazienti devono sentirsi al centro dell’attenzione  – ha detto l’On. Rossana Boldi, vicepresidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati – “in primo luogo come persone e non solo come malate, perché la condizione psicologica delle pazienti è importante quanto la terapia”.

La campagna Acto, realizzata con il supporto incondizionato di Clovis Oncology si sposterà nel mondo reale, per portare le esperienze delle pazienti nei centri specializzati di tutta Italia e discutere insieme ai medic ie alle Istituzioni come colmare i bisogni insoddisfatti e rendere così l’ospedale davvero “più ospitale”.

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