Congo-Ruanda: una fragile speranza di pace tra diplomazia e interessi strategici

di Antonio Adriano Giancane

In un mondo travolto da guerre e crisi globali, la firma di una dichiarazione di intenti tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo rischia di passare inosservata. Eppure, potrebbe essere l’inizio di un nuovo capitolo in una delle aree più martoriate del pianeta. Questo possibile spiraglio di pace arriva dopo oltre trent’anni di tensioni e violenze che hanno causato circa sei milioni di morti e costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case.

Le radici di questo conflitto risalgono al genocidio del 1994 in Ruanda, quando circa un milione di tutsi e hutu moderati vennero massacrati in soli 100 giorni da forze governative e milizie paramilitari. Dopo la vittoria del Fronte Patriottico Ruandese guidato da Paul Kagame, molti leader hutu fuggirono nel vicino Congo orientale. Lì il dramma non si è mai fermato: inseguimenti, massacri, stupri e nuovi conflitti hanno infiammato la regione, trasformandola in un campo di battaglia permanente.

Negli anni, numerosi tentativi diplomatici per fermare gli scontri tra il governo congolese e i ribelli dell’M23 — milizia appoggiata dal Ruanda — si sono rivelati inefficaci. Per questo, la recente dichiarazione firmata a marzo rappresenta una svolta importante. A renderla possibile è stato un inatteso gioco di squadra: il senatore americano Marco Rubio, il consigliere di Trump per l’Africa Massad Boulos, e la mediazione del Qatar, che ha favorito l’incontro tra i presidenti Tshisekedi e Kagame.

Ma dietro la pace c’è anche l’economia. Il Congo orientale è ricco di minerali fondamentali per la transizione energetica e la tecnologia: cobalto, litio, tantalio. Gli Stati Uniti, come altre potenze, puntano a garantirsi l’accesso a queste risorse, e la stabilità è la chiave per farlo. Non a caso, nella proposta di pace è previsto anche un pacchetto di accordi economici e investimenti in infrastrutture estrattive.

Nonostante l’ottimismo di facciata, la situazione sul campo resta fragile. A inizio maggio sono ripresi i colloqui a Doha, ma gli scambi di accuse tra Kinshasa e M23 continuano. I combattimenti nel Nord Kivu non si sono fermati, e solo negli ultimi giorni oltre 30.000 persone sono state costrette a fuggire.

La comunità internazionale segue con attenzione. Il G7 ha chiesto un immediato cessate il fuoco, e l’Unione Europea ha imposto nuove sanzioni contro leader dell’M23 e chi lucra sul traffico illecito di minerali. La speranza è che la diplomazia riesca dove le armi hanno fallito.

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