di Giuseppe Paccione
La deportazione o, meglio, il trasferimento della popolazione civile palestinese dalla Striscia di Gaza è stato pianificato dal governo di Tel Aviv sulla scia del bizzarro progetto Riviera che l’amministrazione Trump ha abbozzato, reputandolo dispotico, per reinsediare i palestinesi nei Paesi confinanti e trasformare l’enclave territoriale gazano in una lussuosa località costiera. Dopo tale proposta del presidente statunitense, le autorità governative israeliane hanno istituito una nuova agenzia [o dipartimento] all’interno del Ministero della Difesa per permettere un corridoio sicuro e controllato dei residenti della Striscia di Gaza per la loro partenza verso gli Stati terzi. Non si è fatto attendere la dura condanna a questo progetto da parte di molti Stati, come pure l’ammonimento del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres di non intraprendere la strada della pulizia etnica, dopo che lo stesso Trump ha dichiarato di voler possedere l’intera Striscia di Gaza e reinsediare i cittadini palestinesi altrove.
Il riferimento all’espressione, sottolineata dal capo dell’amministrazione onusiana, afferente alla pulizia etnica, definita come un’espulsione forzata, non può essere solamente sollevato dal punto di vista politico, ma anche giuridico. Una cerniera normativa abbastanza evidente è costituita dal divieto del trasferimento forzato, ai sensi del diritto dei conflitti armati o umanitario, fondato sullo jus cogens e riaffermato nella IV Convenzione di Ginevra (CG) del 1949. Difatti, viene sancito che, durante un conflitto armato, a prescindere se sia interno o internazionale, le parti non possono deportare ovvero trasferire forzatamente oppure ordinare lo spostamento della popolazione civile. I trasferimenti forzati, dunque, in massa o individuali, come pure le stesse deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato e a destinazione del territorio della Potenza occupante o di quello di qualsiasi altro Stato, occupato o no, qualunque ne sia la ragione, sono vietati (art.49). Ergo, ogni trasferimento di cittadini palestinesi, sia all’interno che all’esterno del lembo territoriale della Striscia di Gaza è imperativamente e categoricamente inibito.
Eppure, il nuovo piano del governo di Tel Aviv consiste nello spostare i civili palestinesi con l’obiettivo di accamparli in un’irrisoria e controllata area della Striscia di Gaza, inducendo la loro partenza all’estero. Lo sfollamento della popolazione civile palestinese dal territorio gazano non solo va in contrasto con la IV CG, configurandosi in tal modo un vero e proprio crimine di guerra, ma costituisce persino un crimine contro l’umanità. Da questo punto di vista, si può ritenere che il reato di deportazione o di trasferimento coercitiva/o viene delineato la natura coercitiva della misura, la presenza giuridica degli sfollati e l’assenza di una ragione sufficiente di tale decisione. Ciò viene, difatti, sottolineato dallo Statuto della Corte penale internazionale che evidenzia il significato dell’espressione deportazione o trasferimento manu militari della popolazione, indicando la rimozione delle persone mediante l’espulsione o con altri mezzi di forza, dal territorio in cui si trova legittimamente (art. 7, paragrafo2, lettera d). Non va dimenticato che la presenza legittima dei palestinesi nella Striscia di Gaza è ormai riconosciuta dall’intera comunità internazionale, come ha giustamente fatto presente la stessa Corte Internazionale di Giustizia nel suo parere del 2024 sulle conseguenze giuridiche derivanti dalle politiche e pratiche di Israele nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est.
Il nocciolo della questione, dunque, consiste nel comprendere se la partenza della popolazione civile dal lembo territoriale della Striscia di Gaza vada inquadrata nella sfera di coercizione oppure in quella volontaria. La risposta che si potrebbe dare, prima facie, è la seguente: una popolazione che si trovi nel bel mezzo di un conflitto bellico dovrà decidere che scelta fare se restare oppure fuggire per salvare la propria pelle. Quando tale fuga viene organizzata da un belligerante, allora ci si troverà dinanzi ad un trasferimento illegale.
Un paio di valutazioni, inoltre, sono state espresse sia da un’organizzazione non governativa israeliana, la quale ha sostenuto che, nel momento in cui la vita viene resa impossibile a causa dell’assedio e dei bombardamenti, non vi è nulla di volontario nella questione che delle persone se ne vadano, sia dal governo israeliano che, al contrario, considera il trasferimento volontario dei residenti della Striscia di Gaza, a seguito del loro interesse a trasferirsi in Stati terzi, conforme al diritto israeliano e a quello internazionale. Tuttavia, nel quadro del diritto dei conflitti armati, distinguere il trasferimento forzato dalla partenza volontaria richiede una valutazione netta e sostanziale del contesto della sua natura consensuale. Difatti, il carattere coercitivo dello spostamento viene determinato dalla mancanza di una chiara scelta da parte della vittima di decidere se abbandonare il suo territorio. Esprimere, quindi, la propria volontà di andarsene non basta, nel senso che un assenso apparente, corroborato dalla minaccia o dalla forza, costituirebbe un consenso non reale, ma che deve esserci la piena libertà e spontaneità dell’individuo di essere trasferito altrove. Circa la natura coercitiva di spostamento delle persone, va precisato che per coercizione si intende non solo la forza fisica, ma persino la minaccia stessa di ricorrere alla forza come la paura, la detenzione e via discorrendo. Si può, a questo punto, menzionare il caso Muthaura et alias della CPI, nel quale è stato sottolineato che la distruzione di abitazioni in zone residenziali, la morte e le lesioni ai civili e le minacce pubbliche per cui tutti devono lasciare la propria dimora equivalevano a un trasferimento forzato. Il paragone con la situazione della Striscia di Gaza ha una maggiore gravità e del tutto impressionante, nel senso che l’ambito coercitivo che prevale non può essere negato dinanzi alla catastrofica situazione umanitaria: come il gran numero di feriti e morti, così come la massiccia distruzione di abitazioni e la prolungata e diffusa privazione di derrate alimentari, di bisogni sanitari et alia.
Il fatto che, ormai, il lembo territoriale gazano sia divenuto inabitabile, a causa dell’operazione militare dell’IDF (Israel Defense Forces), resta non di grande rilevanza. La giurisprudenza stessa del Tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia, ad esempio, ormai consolidatasi, ha precisato simpliciter che lo spostamento di una popolazione non può celarsi dietro una qualsiasi giustificazione se la crisi umanitaria che ha cagionato tale trasferimento fosse esso stesso l’esito della condotta illecita dell’autore. Persino un accordo tra i rappresentanti delle parti coinvolte in una controversia bellica oppure il coinvolgimento di un’organizzazione internazionale o non governativa per facilitare la deportazione di un gruppo di individui possa cesellare tale sfollamento come lecito.
Si pone la domanda se esista un motivo ammissibile, secondo il diritto internazionale. Il carattere coercitivo, in realtà, del trasferimento di una popolazione basta per delineare la non ammissibilità, che costituisce non solo una violazione della IV CG [cioè dell’art. 49], ma anche una violazione del diritto internazionale dei diritti umani e, in primis, del diritto alla libertà di circolazione o movimento come viene enunciato nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici [art.12], che Israele, come potenza occupante, deve applicare e rispettare, nel senso che il cittadino che si trovi nel territorio della Striscia di Gaza gode del pieno diritto ad essere libero di potersi muovere e alla libertà di scelta della residenza nel territorio considerato.
Una controargomentazione potrebbe essere quella di ridefinire il piano di Israele come una vera e propria evacuazione, che è consentita in situazioni molto specifiche, come misura ad interim e di ultima istanza. Tuttavia, l’evacuazione non potrà comportare lo spostamento di individui protetti oltre i confini del territorio occupato, ma soltanto all’interno del territorio occupato [della Striscia di Gaza], tranne quando per ragioni materiali risulti impossibile evitare tale trasferimento [art.49, paragrafo 2 della IV CG]. Non vi è, in maniera assoluta e chiara, nessuna ragione materiale di questo tipo nel caso dell’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza, come è stato posto in evidenza dalla stessa CIG nel parare del 2024, cioè a dire che le evacuazioni sine die, permanenti o indefinite, violano il divieto di trasferimento forzato, ricordando come la violazione di tale divieto sia divenuta norma di carattere cogente [G. PACCIONE, Guerra tra Israele-Hamas nel diritto dei conflitti armati, Nuova Editrice Universitaria, Roma, 2025 , pp. 272 ss.].
L’IDF, dall’ottobre 2023, difatti, ha ordinato una serie di evacuazioni all’interno del territorio della Striscia stessa, a tal punto che quasi l’intera popolazione palestinese è stata sfollata. Alcune agenzie onusiane, relatori speciali delle Nazioni Unite e le organizzazioni non governative hanno riferito che gran parte degli ordini di evacuazione era costituito, in sostanza, da ordini di sfollamento forzato in violazione della IV CG.
Altro punto da ponderare consiste nel ritenere se i trasferimenti forzati siano parte di un attacco diffuso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile. La risposta che si può delineare è che questo elemento contestuale cattura l’essenza del crimine contro l’umanità, che criminalizza le gravi violazioni a causa della loro natura su larga scala. L’attacco non deve essere essenzialmente manu militari, nel senso che gli atti non devono necessariamente costituire un attacco armato [Elementi dei crimini, art.7, paragrafo 3]; ciò sta ad indicare una condotta che comporta la commissione multipla di un reato, tra cui la deportazione o il trasferimento, come viene comminato nell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a (vii) dello Statuto della CPI. Sebbene tale attacco sia afferente alla pluralità dei trasferimenti e di ulteriori reati connessi, esso deve essere diffuso o sistematico, riferendosi alla natura di un massiccio attacco, corroborato dal numero elevato di persone che hanno perso la vita, mentre il termine sistematico concerne la natura organizzata delle condotte di violenza e la non probabilità del loro verificarsi per caso [Procuratore c. Al Bashir, paragrafo 81].
I trasferimenti forzati non possono essere comportamenti accidentali o isolati, ma avvengono nel contesto di un’operazione militare di larga scala. Il carattere diffuso, se non sistematico, dell’attacco viene posto in rilievo in primis dai bombardamenti indiscriminati, dalla distruzione della gran parte delle infrastrutture civili, dal blocco agli aiuti di prima necessità e via discorrendo.
Il progetto di emigrazione per allontanare i civili palestinesi dalla Striscia di Gaza, così come l’evacuazione all’interno di questo lembo territoriale occupato, sono senza alcun dubbio una flagrante violazione della IV CG; questo non è solo considerato un vero e chiaro crimine di guerra, ma anche un crimine contro l’umanità, entrambi figli del crimine di aggressione. il trasferimento imposto che avviene contro la libertà e il consenso delle persone è una caratteristica integrante del conflitto nella Striscia di Gaza. La storia spesso ha menzionato che il trasferimento non è un effetto collaterale ineluttabile del conflitto armato, ma una strategia in sé e persino il fine stesso di molti scontri bellici. Si può riportare alla mente il caso di Srebrenica, quando, verso la metà degli anni novanta del secolo scorso, la popolazione bosniaca musulmana non ha potuto scegliere se abbandonare o restare nel loro territorio, a causa del bombardamento e con altri metodi per terrorizzare la popolazione e costringerla a fuggire dall’area territoriale senza farvi più ritorno.
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