di Antonio Adriano Giancane
L’ennesimo attacco russo sulla città ucraina di Sumy, che ha causato la morte di almeno 35 civili, tra cui bambini e donne, ha scosso le coscienze internazionali ma non quella del presidente Donald Trump, che si è limitato a definire l’eccidio “un errore” e “una cosa orribile”, parole che suonano più come un’alzata di spalle che una condanna politica.
Mentre membri della sua stessa amministrazione, come il generale Kellogg o il segretario di Stato Marco Rubio, parlano apertamente di atrocità e di “linee di decenza superate”, Trump sceglie la via dell’ambiguità. Non alza la voce contro il Cremlino, come invece fa con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, da tempo nel mirino di critiche e provocazioni da parte dell’ex tycoon.
Una postura che solleva interrogativi etici e politici: perché Trump tratta con arroganza chi è in ginocchio e con indulgenza chi alza la voce? Come un leone che ruggisce contro le pecore ma china il capo davanti a un altro leone, Trump sembra selezionare i suoi bersagli in base alla forza, e non alla giustizia.
Il contrasto è netto. Zelensky ha invitato Trump a visitare l’Ucraina, a vedere con i propri occhi le ferite della guerra: “Guardate i bambini distrutti, gli ospedali, le chiese colpite”, ha detto il presidente ucraino. Un appello umano, diretto, che chiede verità e coraggio. Ma Trump risponde con il gelo, evitando il viaggio, evitando il confronto, evitando, soprattutto, la condanna esplicita a Putin.
E mentre missili balistici radono al suolo una città nel giorno della Domenica delle Palme, Trump si rifugia in dichiarazioni confuse: “Mi hanno detto che è stato un errore”, lasciando intendere che ci si possa fidare della versione russa. Il ministro degli Esteri Lavrov parla di un attacco mirato a obiettivi militari. I video, però, mostrano solo vittime civili, tra cui una ragazza di 14 anni e una donna dilaniata. Nessun “errore”. Nessuna ambiguità.
L’incontro tra l’inviato di Trump, Steve Witkoff, e Putin a San Pietroburgo, due giorni prima della strage, è un altro segnale preoccupante. Mentre la diplomazia ufficiale fallisce, le strette di mano informali tra alleati strategici si moltiplicano. E la Russia, anziché frenare l’aggressione, pare sentirsi rafforzata. Trump ama presentarsi come l’uomo forte. Ma la sua forza, come troppo spesso accade, si esercita solo contro i più fragili. È una forza che ruggisce solo dove può vincere senza combattere.
Questa non è diplomazia ma appare invece una strategia della paura mascherata da pragmatismo.
Questa ambiguità, che si traduce in una costante esitazione a mettere Mosca alle strette, solleva interrogativi inquietanti. In un contesto segnato da un conflitto brutale, dove la posta in gioco comprende non solo la sovranità nazionale ucraina ma anche il controllo su risorse strategiche — come terre rare, metalli critici e grano — la cautela trumpiana può essere letta da molti osservatori come una forma di complicità indiretta.
Il sospetto, che circola tra analisti e diplomatici, è che dietro la facciata del “realismo negoziale” si nasconda un interesse più concreto: la possibilità, da parte di grandi potenze economiche, di spartirsi le immense risorse del territorio ucraino una volta concluso il conflitto. In quest’ottica, la posizione di Trump sembrerebbe funzionale non alla pace, ma alla ridefinizione degli equilibri geopolitici ed economici in chiave neoimperialista.
Mentre Kiev continua a difendere la propria indipendenza sotto assedio, la mancanza di una condanna chiara del Cremlino e il disinteresse a sostenere pienamente l’Ucraina da parte di figure politiche di primo piano negli Stati Uniti rischiano di indebolire la posizione occidentale nel suo complesso, lasciando spazio a scenari in cui i diritti e la sovranità diventano merce di scambio tra superpotenze.
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