Nel cuore dei Balcani, la Serbia si trova a un bivio. La popolazione ha alzato la voce e continua a chiedere trasparenza e giustizia. “Siamo forti se restiamo pacifici“, ripetono i manifestanti, consapevoli che l’attenzione internazionale finora è stata scarsa. I fari della protesta sono accesi: resta da vedere se qualcuno, fuori dai confini serbi, noterà questa luce
Una folla imponente ha invaso le strade di Belgrado, dando vita alla più grande manifestazione della storia recente serba. Studenti e lavoratori si sono riversati nella capitale, superando per affluenza persino le proteste che portarono alla caduta di Slobodan Milosevic.
“I fari sono accesi, la Serbia chiede aiuto!” è il grido che risuona tra le vie della città. Giovani con libri sottobraccio, operai con le bandiere, madri che intonano canti, agricoltori giunti con i trattori ancora sporchi di terra: tutti uniti nella richiesta di cambiamento. Alcuni hanno pedalato per chilometri da Nis e Kragujevac, altri sono arrivati a piedi dalle campagne più remote. Tra la folla, si vedono tamburi, megafoni, fischietti e fumogeni, mentre i vessilli nazionali sventolano tra la gente. Rari i simboli dell’Unione Europea, più frequenti le aquile bicefale e le colombe della pace.
I cartelli mostrano riferimenti alla cultura popolare e alla storia: gli occhi di Aragorn, il personaggio tolkeniano che implora aiuto accendendo i fuochi di segnalazione, e l’iconico protagonista de “La Linea” di Cavandoli, il quale protesta instancabile contro le ingiustizie. Gli slogan della cosiddetta “Primavera Serba” si fanno strada tra la folla: “La fantasia al potere contro un potere senza immaginazione“, “La corruzione ci distrugge!“, “Gli studenti cambieranno il futuro!“, “La libertà non è un lusso!”.
Da novembre le manifestazioni sono diventate un appuntamento fisso. Tutto è iniziato con la tragedia della stazione ferroviaria di Novi Sad: il crollo di una pensilina ha causato la morte di quindici persone, tra cui due bambini, e il ferimento di molti altri. Una struttura recentemente ristrutturata due volte con fondi pubblici. Da allora, ogni venerdì alle 11:52, ora esatta del disastro, migliaia di persone si riuniscono in tutta la Serbia per chiedere giustizia. Prima gli universitari, poi i sindacati, infine avvocati, magistrati e giornalisti si sono uniti alla protesta contro un governo accusato di censura e favoritismi.
Aleksandar Vucic, presidente serbo ed ex portavoce di Milosevic, guida il Paese con una strategia definita da molti “opportunistica”: ha sfruttato i finanziamenti dell’Unione Europea, mantenendo al contempo stretti legami con Russia e Cina. Se da un lato ha espresso sostegno all’Ucraina, dall’altro ha evitato di imporre sanzioni contro Mosca. Per placare le tensioni, ha rimosso il sindaco di Novi Sad e il ministro dei Trasporti, nonché il primo ministro Milos Vucevic, ma queste mosse non hanno fermato le contestazioni.
Le autorità minimizzano la portata della protesta, parlando di centomila partecipanti, ma le immagini aeree suggeriscono numeri ben più elevati, vicini al mezzo milione dichiarato dagli organizzatori. Il governo, temendo un’escalation, ha schierato forze paramilitari e bloccato i trasporti pubblici in diverse zone per ostacolare i cortei. Giornalisti stranieri, soprattutto croati e sloveni, sono stati fermati alle frontiere, ufficialmente per la loro sicurezza, ma in realtà per evitare che la protesta ottenga eco internazionale.
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