di Pasquale Preziosa
Negli ultimi anni, i segnali di un profondo cambiamento nei rapporti di forza del sistema finanziario globale si sono moltiplicati. Il dollaro statunitense, storicamente la valuta di riserva dominante dalla fine della Seconda guerra mondiale, mostra ora evidenti segni di vulnerabilità. Tra i fattori che alimentano questo cambiamento figurano il crescente indebitamento pubblico americano, l’uso politico del dollaro come strumento di pressione geopolitica, il progressivo affievolirsi della fiducia internazionale e l’emergere della Cina come potenza economico-finanziaria alternativa.
L’economista Kenneth Rogoff, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ha recentemente sostenuto (SCMP, 2025) che il dollaro ha superato il proprio apice nel 2015. Il sistema finanziario globale si fonda ancora sulla centralità della moneta americana, ma questa si trova sempre più esposta a pressioni interne ed esterne. L’indebitamento netto degli Stati Uniti verso l’estero si avvicina al 100% del PIL, e il deficit strutturale delle partite correnti riflette un modello economico insostenibile.
La vulnerabilità del dollaro si manifesta con particolare evidenza nei momenti di tensione geopolitica. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno congelato circa 300 miliardi di dollari in riserve russe, mettendo in discussione la neutralità degli asset in dollari e allarmando detentori esteri come la Cina.
L’economista Yu Yongding ha sostenuto la necessità per Pechino di ridurre gradualmente le riserve in Treasury Bonds e puntare su domanda interna e riforma economica strutturale. La Cina detiene oltre 3.300 miliardi di dollari in riserve, di cui circa 800 miliardi in titoli USA.
Il progetto cinese di internazionalizzazione dello yuan trova oggi una finestra di opportunità irripetibile, dato che la “weaponization” del dollaro ha minato la sua credibilità come valuta globale. Tuttavia, la costruzione di una valuta di riserva richiede riforme strutturali: accesso ai titoli sovrani, liberalizzazione dei capitali, sistema di pagamenti autonomo, stabilità macroeconomica e fiducia istituzionale.
Un nuovo sistema monetario tripolare: dollaro, yuan, euro
La fine del monopolio del dollaro non implica un crollo immediato, ma l’inizio di un’era di autonomia finanziaria multipolare.
Kenneth Rogoff prevede una possibile crisi valutaria entro 5-7 anni, aggravata da politiche interne irresponsabili e squilibri strutturali. La presidenza Trump potrebbe fare da catalizzatore, ma non è la causa della crisi.
Yu Yongding avverte che la Cina non può rimpiazzare il dollaro senza profonde riforme interne, ma che deve accelerare sull’internazionalizzazione dello yuan.
Il “dilemma di Triffin”, secondo il Prof. Dario Velo e il Gen. Pasquale Preziosa, è il nodo teorico di fondo: una valuta nazionale non può sostenere una funzione monetaria globale. Gli squilibri accumulati dagli USA minano la sostenibilità della loro egemonia.
L’unilateralismo tariffario dell’amministrazione Trump
Le radici della crisi risalgono agli anni ’60, con la fine della convertibilità in oro e il collasso di Bretton Woods.
Tutte le valute egemoni nella storia hanno vissuto cicli di ascesa e declino, legati al potere delle nazioni emittenti.
Il dollaro, erede della sterlina, rischia ora un declino analogo, ma con implicazioni sistemiche globali.
La fine dell’accordo sul petrodollaro, l’ascesa di piattaforme digitali alternative come mBridge e la polarizzazione interna negli USA suggeriscono che siamo in una transizione d’epoca, non in una crisi ciclica.
La nuova strategia dell’amministrazione Trump, il cosiddetto “Accordo di Mar-a-Lago”, mira a svalutare il dollaro, rilanciare la manifattura e ridurre i deficit gemelli, ma ricorda una versione distorta dell’accordo di Plaza del 1985, senza la solidità macroeconomica del passato.
Il rapporto debito/PIL supera oggi il 120%. L’America non è più la potenza giovane del dopoguerra, ma un sistema maturo in difficoltà.
La guerra commerciale con la Cina ha toccato livelli drammatici:
- Dazi USA cumulativi al 156%,
- Tariffe cinesi al 125%,
- Rischio di recessione sincronizzata globale,
- Crescita cinese sotto il 4,5%.
Economisti come Mario Lettieri e Paolo Raimondi criticano l’Accordo di Mar-a-Lago come superficiale e disconnesso dalle cause profonde del declino industriale USA: outsourcing, deindustrializzazione, finanziarizzazione estrema.
Strumentalizzare il dollaro e depotenziare la Federal Reserve rischia di minare la stabilità finanziaria globale. Un possibile punto di svolta: un accordo quadro tra Stati Uniti e Cina per una tregua commerciale, che prevede:
- Riduzione graduale dei dazi,
- Liberalizzazione dell’export cinese di terre rare,
- Negoziato per riequilibrio commerciale entro agosto.
L’accordo ha ricevuto reazioni positive ma caute. Tuttavia, la leadership economica americana resta sotto pressione.
Come ammonisce Martin Wolf sul Financial Times, l’isolazionismo USA può favorire una nuova centralità europea, fondata su stabilità e cooperazione.
In sintesi, la crisi del dollaro è parte di un ciclo storico ricorrente: quando declina la potenza, declina la sua moneta.
Ogni fine, però, può aprire la strada a una nuova architettura internazionale, più stabile e condivisa, se c’è la volontà di costruire il futuro invece di difendere il passato.
Pasquale Preziosa
Membro esperto cel Comitato scientifico Eurispes
Docente di Geostrategia
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