Il problema non risolto del futuro di Israele

di Pasquale Preziosa

Preservare Israele come Stato ebraico e democratico rappresenta una sfida storica tuttora irrisolta. In passato, la soluzione dei due Stati – uno per il popolo ebraico, uno per quello palestinese – era considerata l’unica via sostenibile per garantire il riconoscimento reciproco di due movimenti nazionali distinti che rivendicano lo stesso territorio. Tuttavia, questa prospettiva appare oggi sempre più distante dalla realtà.

La guerra in corso a Gaza, scatenata dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 e la conseguente offensiva militare israeliana, ha segnato una cesura profonda. In Israele, l’ipotesi dei due Stati è stata formalmente respinta da esponenti di primo piano dell’attuale governo, mentre si moltiplicano dichiarazioni che escludono la possibilità di uno Stato palestinese e prospettano, in alcuni casi, il trasferimento forzato della popolazione palestinese, in particolare dalla Striscia di Gaza.

Contestualmente, il contesto politico e regionale si è ulteriormente complicato. L’instabilità cronica del teatro mediorientale si intreccia con una leadership palestinese frammentata e un sistema politico israeliano fortemente condizionato da forze ultranazionaliste e religiose.

Un ulteriore fattore destabilizzante di primaria importanza è rappresentato dall’Iran. La Repubblica Islamica ha più volte dichiarato la propria intenzione di eliminare Israele dalla carta geografica, una retorica condivisa da Hamas, che riceve da Teheran sostegno politico, finanziario e militare. Attraverso una rete di attori non statali come Hezbollah in Libano, la Jihad Islamica in Palestina e gli Houthi in Yemen, l’Iran esercita una pressione costante e asimmetrica su Israele e sui suoi alleati. L’attivismo degli Houthi, in particolare, ha aperto un nuovo fronte di instabilità nel Mar Rosso, colpendo navi mercantili e obiettivi strategici in coordinamento con l’asse anti-occidentale.

Tale strategia è aggravata dall’ambizione iraniana di acquisire capacità nucleari militari. Nonostante le dichiarazioni ufficiali sulla natura civile del programma, il continuo arricchimento dell’uranio e le restrizioni imposte agli ispettori dell’AIEA alimentano il sospetto di un obiettivo militare. In questo contesto, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ribadito con fermezza che Israele non permetterà mai all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare, riaffermando una linea rossa invalicabile della dottrina strategica israeliana.

Parallelamente, Netanyahu ha dichiarato l’intento di eliminare completamente Hamas come entità militare e politica. L’operazione a Gaza ha inflitto danni significativi alle infrastrutture operative del gruppo, riducendone le capacità logistiche e combattenti. Tuttavia, non è riuscita a estirpare l’ideologia jihadista né a smantellare la rete sociale e sotterranea di Hamas, che resta profondamente radicata in ampi segmenti della popolazione palestinese. L’eliminazione militare parziale, dunque, non equivale all’eradicazione del terrorismo: Hamas continua a esistere come idea e come struttura politica, nonostante i colpi ricevuti sul piano operativo.

Proprio per contenere la minaccia regionale complessiva, sono attualmente in corso colloqui riservati tra rappresentanti degli Stati Uniti e dell’Iran, con l’obiettivo di raggiungere un’intesa sul programma nucleare e sulla riduzione delle tensioni. Il loro esito sarà determinante per il futuro equilibrio del Medio Oriente.

In questo quadro altamente polarizzato, anche un eventuale declino politico di Netanyahu – indebolito da procedimenti giudiziari e contestazioni interne – difficilmente cambierebbe la percezione dominante in Israele: la pace con i palestinesi è considerata, nella migliore delle ipotesi, un’illusione remota. Un cambio di leadership, anzi, potrebbe persino accelerare il processo di annessione parziale della Cisgiordania, in particolare delle aree già insediate da coloni. Tale processo creerebbe un precedente legale e politico che renderebbe ancora più difficile una futura divisione territoriale. La deriva verso uno Stato unico binazionale, instabile e conflittuale, apparirebbe così sempre meno reversibile.

Uno Stato binazionale non rappresenterebbe una soluzione praticabile: la convivenza forzata tra due popoli, in un quadro privo di parità di diritti e di riconoscimento reciproco, alimenterebbe una condizione di conflitto cronico. Né gli israeliani rinunceranno alla dimensione nazionale ebraica del loro Stato, né i palestinesi accetteranno di vivere privi di sovranità. Il Medio Oriente, infatti, non è entrato in una fase post-nazionalista: le identità etniche e religiose restano il fondamento delle rivendicazioni politiche.

In questo scenario, l’unico sviluppo positivo registrabile è l’emersione di un nuovo asse strategico attraverso gli Accordi di Abramo, firmati a partire dal 2020 tra Israele e diversi Paesi arabi sunniti (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan), con il sostegno diretto degli Stati Uniti. Se esteso ad attori chiave come l’Arabia Saudita, questo patto potrebbe rappresentare una svolta storica, consolidando un’alleanza tra Israele e le monarchie sunnite del Golfo in funzione di contenimento dell’Iran. Un simile schieramento, sostenuto dalla superiorità tecnologica e militare israeliana, potrebbe determinare una forma di superiorità strategica, potenzialmente rafforzata da un equilibrio di deterrenza asimmetrica rispetto al fronte sciita guidato da Teheran.

Tuttavia, tale riassetto regionale non risolve le tensioni più profonde che attraversano il Medio Oriente, in particolare la storica rivalità tra sunniti e sciiti, che rischia di inasprirsi ulteriormente. L’Iran, percependo una minaccia crescente, potrebbe accelerare i propri programmi militari e intensificare il ricorso ai suoi proxy, alimentando una nuova corsa agli armamenti. La stessa superiorità israelo-sunnita, se non inquadrata in una cornice multilaterale di sicurezza, rischia di diventare più un elemento di instabilità che un fattore di deterrenza.

Alla luce di questi sviluppi, l’assenza di una strategia inclusiva per risolvere la questione palestinese si configura come un punto critico. Una politica multilivello – che combini iniziative concrete dal basso con una visione politica dall’alto – potrebbe riaprire uno spazio di manovra, ma al momento mancano sia la volontà politica, sia le condizioni sul terreno.

Se da un lato anche i palestinesi sono chiamati a riformare le proprie istituzioni e a ricostruire una leadership credibile, dall’altro il sionismo, fondato sull’autodeterminazione, implica che Israele non può delegare il proprio destino. L’inazione non è neutrale: consolida una deriva verso un’entità binazionale priva di coesione, incapace di garantire stabilità e pace.

La storia offre esempi di decisioni difficili assunte in momenti di grande incertezza. Le discussioni interne al governo israeliano dopo la guerra del 1967 rappresentano un caso emblematico di come la leadership politica abbia saputo confrontarsi con scelte di lungo respiro. Rievocare questi precedenti non equivale a proporre soluzioni semplicistiche, ma significa ricordare che, anche nei contesti più difficili, la responsabilità politica può – e deve – orientare il futuro con visione e coraggio.

Pasquale Preziosa: già Capo di Stato Maggiore AM, oggi esperto del Comitato Scientifico dell’Eurispes e professore universitario di geostrategia.

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