Donald Trump punta a riportare la produzione negli Stati Uniti, criticando duramente la globalizzazione e imponendo dazi alle importazioni. Dietro la sua strategia si cela un piano articolato che potrebbe causare una recessione controllata, spingendo la Federal Reserve a tagliare i tassi. Il mondo reagisce: Cina e Argentina si muovono, l’Italia dovrebbe rispondere in modo strategico per non restare esclusa dal nuovo ordine economico globale
di Andrea Pinto
Donald Trump è tornato al centro della scena politica ed economica globale con una strategia tanto ambiziosa quanto controversa. Il suo obiettivo principale? Rilanciare l’industria americana, riportando negli Stati Uniti la produzione di beni che da decenni è stata spostata in Asia. Una sfida aperta alla globalizzazione, che secondo il presidente Usa ha danneggiato profondamente l’economia statunitense.
Trump parte da un’analisi condivisa anche da diversi economisti: la globalizzazione, così come è stata gestita finora, non ha funzionato. L’apertura incontrollata a mercati come la Cina, senza regole precise, ha favorito le delocalizzazioni. Aziende statunitensi e occidentali hanno trasferito impianti produttivi nel sud-est asiatico, attratte da manodopera a basso costo e incentivi statali locali. Il risultato è stato la perdita di interi distretti industriali in patria, una compressione dei salari e una crescente insicurezza occupazionale.
Per contrastare questo fenomeno, Trump ha rilanciato i dazi doganali come arma politica ed economica. Questi consistono in tasse imposte sulle merci importate, rendendole più costose e quindi meno competitive rispetto ai prodotti nazionali. Ma l’effetto non si ferma alle Dogane: i dazi innescano reazioni a catena nei mercati finanziari e nei rapporti geopolitici internazionali.
Infatti, la reazione di Wall Street è stata immediata: le borse americane sono crollate, trascinando con sé gli indici globali. Questo perché il sistema economico americano è fortemente esposto alla finanza: milioni di cittadini hanno investimenti in borsa, soprattutto attraverso i fondi pensione. Un crollo azionario diventa quindi una minaccia diretta al benessere dei cittadini e all’equilibrio politico.
Eppure Trump sembra avere un piano preciso. In un’intervista rilasciata a Fox News, ha ammesso che la sua politica economica potrebbe portare a una recessione temporanea, ma necessaria. Secondo lui, questa fase di transizione spingerebbe la Federal Reserve, la banca centrale americana, a ridurre i tassi di interesse per stimolare l’economia. Questo taglio dei tassi avrebbe un effetto ulteriore: permettere agli Stati Uniti di rifinanziare a costi minori il proprio enorme debito pubblico. Solo nel 2025 scadranno circa 7 trilioni di dollari di debito (7.000 miliardi), che dovranno essere rinnovati sui mercati internazionali. Con tassi più bassi, gli USA pagherebbero meno interessi, indebitandosi a condizioni più favorevoli.
La strategia di Trump, quindi, combina protezionismo economico, gestione del debito pubblico e riformulazione della politica monetaria. Ma comporta anche sacrifici: molte grandi aziende americane – Nike su tutte – producono in Asia. I dazi, colpendo le importazioni, danneggiano queste stesse imprese, almeno nel breve periodo. Inoltre, i produttori esteri, pur colpiti dai dazi, non riescono sempre a trasferire interamente il costo sul consumatore finale, per paura di perdere quote di mercato. Questo li porta a ridurre i propri margini di profitto, alimentando tensioni commerciali.
Lo scenario si complica ulteriormente sul fronte geopolitico. La Cina ha risposto promettendo misure di stimolo interno per rafforzare la domanda domestica e ha annunciato un avvicinamento strategico a Paesi come Giappone e Corea del Sud. Parallelamente, l’Argentina potrebbe diventare il primo Paese a beneficiare di un accesso privilegiato agli Stati Uniti a tasso zero, secondo voci sempre più insistenti.
In Europa, l’Italia si trova davanti a un bivio. Gian Claudio Torlizzi, presidente di T-Comodity, in un recente articolo propone una soluzione “a sorpresa”: invece di irrigidirsi, l’Italia – e più in generale l’Unione Europea – dovrebbe rispondere a Trump aumentando le importazioni dagli Stati Uniti. Un gesto concreto che mostrerebbe volontà di collaborazione, riequilibrando il deficit commerciale e prevenendo ulteriori tensioni.
Il risultato di tutto questo? Un mondo che si sta allontanando dalla globalizzazione integrata per muoversi verso un nuovo modello di regionalizzazione economica, in cui prevalgono blocchi commerciali chiusi, accordi bilaterali e logiche mercantiliste. Un ritorno al passato, che però avrà un impatto decisivo sul futuro.
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