Israele valuta espansione della guerra
di Antonio Adriano Giancane
Un missile balistico lanciato dai ribelli Houthi dello Yemen ha colpito domenica mattina un parcheggio vicino al Terminal 3 dell’aeroporto Ben Gurion, il principale scalo internazionale di Israele. L’attacco, avvenuto in una delle giornate più trafficate della settimana lavorativa israeliana, ha causato il ferimento di otto persone e ha creato un profondo cratere all’interno del perimetro aeroportuale. È la prima volta che un attacco degli Houthi riesce a colpire così vicino a un’infrastruttura di tale rilevanza, segnando una preoccupante escalation nel conflitto regionale.
Le immagini diffuse dai servizi di emergenza mostrano strade ricoperte di detriti e un’enorme nube di fumo nero che si alza dal punto d’impatto. Nonostante la presenza dei sofisticati sistemi di difesa aerea Arrow 3 e del sistema antimissile statunitense Thaad, il proiettile è riuscito a eludere l’intercettazione. Diverse compagnie aeree internazionali hanno immediatamente sospeso i voli verso Tel Aviv, rievocando paure già emerse nei primi mesi della guerra a Gaza.
L’attacco ha avuto luogo poche ore prima che il gabinetto israeliano si riunisse per votare sull’espansione dell’operazione militare terrestre a Gaza. La coincidenza temporale solleva interrogativi sulle strategie belliche di Israele e sull’equilibrio precario tra risposte militari e necessità di una soluzione diplomatica.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso una risposta dura e mirata, indicando l’Iran come mandante degli attacchi Houthi: “Israele risponderà nel momento e nel luogo che sceglieremo, non solo agli Houthi ma anche ai loro padroni iraniani.” Netanyahu ha anche fatto eco a un post dell’ex presidente statunitense Donald Trump, che ha accusato Teheran di sostenere militarmente i ribelli yemeniti. L’Iran, da parte sua, ha negato qualsiasi coinvolgimento diretto, pur continuando ad appoggiare politicamente la causa Houthi.
Nel frattempo, il governo israeliano ha richiamato migliaia di riservisti per rafforzare le operazioni nella Striscia di Gaza, dove il conflitto con Hamas si protrae ormai da oltre 18 mesi. Le forze israeliane hanno intensificato i raid aerei e occupato porzioni significative del territorio, tra cui il corridoio di Netzarim e le aree attorno a Rafah, contribuendo al peggioramento della crisi umanitaria. La popolazione di Gaza – circa 2,1 milioni di persone – è allo stremo, con carenze gravissime di cibo, medicine e carburante.
L’espansione delle operazioni militari da parte di Israele avviene mentre i negoziati per un cessate il fuoco restano in stallo. Hamas ha dichiarato di essere disposta a rilasciare tutti gli ostaggi israeliani ancora detenuti – 59, di cui si stima meno della metà ancora vivi – solo in cambio di un cessate il fuoco di cinque anni, del ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza e dell’avvio di una ricostruzione internazionale. Israele, al contrario, chiede il disarmo totale di Hamas come condizione preliminare.
Nonostante la linea dura del governo, cresce il malcontento interno. Sondaggi recenti mostrano che la maggioranza degli israeliani preferirebbe porre fine alla guerra in cambio della liberazione degli ostaggi. Numerosi riservisti hanno firmato petizioni nelle ultime settimane per chiedere al governo un accordo che metta fine ai combattimenti. Tuttavia, i ministri ultranazionalisti della coalizione, da cui Netanyahu dipende politicamente, spingono per un’escalation ulteriore che comprenda anche l’occupazione permanente di Gaza, arrivando persino a evocare proposte radicali come lo sfollamento totale della popolazione palestinese.
Il missile degli Houthi ha rappresentato quindi più di un semplice atto bellico: ha toccato un nervo scoperto in una fase critica del conflitto. Mentre Israele si interroga sulla sostenibilità della propria strategia militare, la regione intera rischia di sprofondare in una guerra sempre più estesa, che coinvolge direttamente attori esterni come Iran, Stati Uniti e ribelli yemeniti.
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