L’Isis in metastasi e la strategia italiana estera in funzione industriale

(di Massimiliano D’Elia) L’Isis in molti pensano sia stato sconfitto nella sua forma statuale dopo le battaglie, quartiere per quartiere in due paesi chiave della regione. In Iraq e in Siria, la campagna per rovesciare il cosiddetto progetto del califfato che Isis ha stabilito nel giugno 2014 ha ampiamente raggiunto il suo obiettivo. Dopo tre anni e mezzo, la coalizione internazionale ha sconfitto e cacciato  l’organizzazione da almeno il 98% del territorio che un tempo aveva conquistato.

In termini pratici, questo significa che il mondo non deve più affrontare una minaccia sulla stessa scala. Lo slancio che aveva permesso all’organizzazione di attirare migliaia di combattenti stranieri e le loro famiglie è stato interrotto. La capacità del gruppo di espandere e minacciare altri paesi è seriamente ridotta. Paesi come l’Iraq e la Siria, che un tempo temevano le ramificazioni di un gruppo militante in avanzata evoluzione, ora hanno uno spazio di respiro per concentrare i propri sforzi altrove.

L’Isis è attualmente sottoposto ad un enorme sforzo per mantenere viva la propria esistenza ed essenza. Il gruppo terrorista si trova nella sua fase più debole dall’estate 2014, in termini di forza lavoro, finanza e capacità di attaccare o difendersi dagli attacchi. Di conseguenza, anche la sua ideologia e il suo fascino sono stati indeboliti. Coloro che hanno visto, in prima persona, il gruppo per quello che è, ovvero un’organizzazione spietata e famosa per la ferocia dei suoi militanti che hanno mostrato medesima cattiveria nei confronti degli stessi sunniti che affermano di rappresentare. Terrificanti i massacri di persone avvenuti a danno  della tribù Shaytat a Deir Ezzor, nella Siria orientale.

I successi avuti contro l’Isis rappresentano un’opportunità non solo per uccidere l’organizzazione, ma per prevenire la sua resurrezione. L’organizzazione prima era un “cancro” localizzato in due paesi ora si è trasformato in metastasi, per utilizzare una sillogia medica, che meglio può esprimere lo stato degli eventi in atto.

L’Isis nei suoi documenti ufficiali ha sempre parlato di una lunga guerra, ovvero la volontà e l’obiettivo di alimentare per lungo tempo la guerra contro l’occidente, in qualsiasi forma. Anche se oggi l’organizzazione è stata relegata in piccole aree della Siria e dell’Iraq, si è scoperto che la stessa a macchia di leopardo si è ramificata in Libia, Somalia, Niger e così via. Ha perso la presenza localizzata in due paesi è si è dispersa in tanti altri. Verosimilmente è ancora più pericolosa ora perché tende a destabilizzare più stati. Benchè debole l’Isis non è stato affatto sconfitto. Occorre continuare ad operare per riuscire a non farli riorganizzare sotto una sola regia. Più fazioni in diversi stati e non coordinati, sarebbe il male minore.

Il contesto di intervento dell’occidente nei paesi africani è molto difficile perchè ci si muove ancora secondo interessi nazionali e senza una strategia comune. Esempio è la Francia che in politica estera fa quello che vuole, fa e disfà tutto. Nei paesi africani, notoriamente, poco stabili è facile stringere accordi bilaterali, basta dare in contropartita del denaro, ovvero promettere ingenti guadagni e potere sul territorio. A nessuno interessa davvero la popolazione e quello che è costretta a subire dalle angherie delle varie fazioni paramilitari. In questo contesto l’Isis trova terreno fertile perchè riesce a rifinaziarsi con il mercato nero, la tratta degli schiavi, il traffico di esseri umani e così via.

Il Nord Africa rappresenta, per molti versi, la cartina tornasole del fallimento dell’Occidente. Onu, Nato, Ue hanno dimostrato, sull’emergenza  del mediterraneo,  la “non strategia”. Probabilmente consapevolmente  hanno lasciato il peso e l’onere del problema  alle nazioni occidentali direttamente interessate che si affacciano sul Mediterraneo. La Francia ha capito e preso subito questa opportunità condizionando, spesso, le decisioni di altri paesi tipo l’Italia.

Oggi verrà deciso l’invio di 500 soldati italiani in Niger, appunto.

L’Italia, quindi,  invierà centinaia di militari nel deserto del Niger per contrastare i trafficanti che contrabbandano i migranti africani attraverso il Sahara e il Mar Mediterraneo. Nella coalizione ci saranno anche unità delle forze speciali tra i 470 soldati italiani che prenderanno posizione circa 100 chilometri a sud della frontiera con la Libia e che saranno acquartierati nel Fort Madama, un avamposto costruito dalla Legione straniera francese negli anni ’30 lungo le rotte del contrabbando. Nei primi giorni dell’anno prossimo un primo contingente di 120 militari e un centinaio di veicoli voleranno in Gabon per poi raggiungere via terra la loro destinazione distante 2.300 chilometri. Questo intervento, scrive il Times, riflette la convinzione del governo italiano che il confine meridionale della Libia sia ormai diventato la frontiera dell’Europa: una porta di accesso per i migranti che va chiusa. I soldati aiuteranno “a sconfiggere i trafficanti di uomini e anche i terroristi” ha spiegato il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni che all’inizio di dicembre ha partecipato al vertice Ue-Africa tenutosi a Parigi con la partecipazione dei leader di Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania e in cui si è discusso degli sforzi comuni per combattere il terrorismo jihadista nella regione africana del Sahel. Ciò, non toglie, nota il “Times”, che la decisione del governo italiano sia piuttosto sorprendente dopo anni di contrasti con i governi francesi iniziati con la cacciata del regime di Gheddafi in Libia, le cui risorse energetiche sono contese tra le compagnie petrolifere statali di Italia e Francia. Gli italiani, scrive l’editorialista del Times, Tom Kington, sono tuttora assai sospettosi per il sostegno che i francesi danno al generale Khalifa Haftar, le cui milizie controllano la Cirenaica. “E’ quindi ironico che ora l’Italia si trovi in Niger fianco a fianco con la Francia”, ha detto al “Times” Gianandrea Gaiani, direttore della rivista online Analisi Difesa, il quale ritiene inoltre assai opinabile l’affermazione del capo di stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, secondo cui la missione in Niger non prevede l’impiego in combattimento dei soldati italiani. Sara’ arduo contrastare le ben armate milizie dei trafficanti e dei terroristi, ha detto al “Times”, solo attraverso l’addestramento delle forze di sicurezza del Niger e senza essere mai impegnati sul terreno di battaglia. Quest’ultima eventualità allarma molti in Italia: la missione dovra’ essere approvata dal Parlamento e non dal Consiglio dei Ministri e le opposizioni affilano le armi, soprattutto la neonata coalizione di estrema sinistra Liberi e Uguali.

A molti forse è sfuggito che nel 2018 Fincantieri e Stx France decideranno il nuovo perimetro di competenze secondo i propri piani industriali, per la parte civile. Per la parte militare occorrerà più tempo e la road map dell’operazione prevede un lavoro dei gruppi di studio fino al 30 giugno prossimo. In questo lungo periodo l’Italia dovrà puntare sul tavolo negoziale con la Joint Venture Orizzonte Sistemi Navali, costituita al 51% da Fincantieri e al 49% da Leonardo.

Occorre quindi pagare un prezzo per far rientrare Leonardo nell’affaire Fincantieri-Stx France. La partecipazione dell’Italia in Niger potrebbe avere la duplice utilità: contribuire alla lotta all’Isis monitorando una delle porte di accesso verso l’Europa e compiacere i francesi, che allenterebbero la presenza in quella regione, in prospettiva  del prossimo accordo industriale del 2018. Se così fosse davvero, l’Italia ha dimostrato di saper interpretare e contemperare le opportunità, senza attendere il placet e / o risoluzioni Ue, Nato e Onu.

L’Isis in metastasi e la strategia italiana estera in funzione industriale