La mafia nell’industria italiana della difesa

Il libro Pecunia non olet (o il denaro non puzza mai), che è già un best seller in Italia,  cerca di ricostruire in parallelo l’evoluzione della mafia e quella dell’industria italiana della difesa, due mondi che sono entrati spesso in contatto perché, nonostante la pluralità dei suoi interessi, Cosa nostra è sempre stata consapevole che le armi rappresentano un settore tra i più appetibili economicamente e rilevanti politicamente. La storia che qui si racconta ha due protagonisti, emblematici di due mondi a confronto: la criminalità e la legge, l’omertà e la trasparenza, il compromesso affaristico senza remore e l’etica professionale senza incertezze.

Il primo è Vito Roberto Palazzolo, «uno dei soggetti più pericolosi della comunità criminale internazionale». Il secondo è Francescomaria Tuccillo, avvocato penalista napoletano ed ex direttore della regione Africa subsahariana per Finmeccanica (oggi Leonardo), dal 1948 leader del settore difesa, a lungo considerata insieme a Eni il fiore all’occhiello dell’industria in Italia. I due si incrociano, forse fortuitamente o forse no, in un albergo di Luanda nel 2009, durante un seminario presieduto da un membro del governo italiano. Questo incontro cambia la vita di entrambi e soprattutto rivela che Finmeccanica ha nascosto per decenni l’ombra di Cosa nostra, incarnata dalla presenza discreta, dietro alcuni dei suoi affari più lucrosi, di un latitante condannato per mafia da sentenza definitiva della Cassazione italiana e riconosciuto da Falcone in poi come il tesoriere di Totò Riina e Bernardo Provenzano, le «Belve» di Corleone.

La vicenda africana che vede coinvolti Tuccillo e Palazzolo è soltanto uno dei molti episodi dell’ampio affresco che un magistrato napoletano ha definito come «l’unitario disegno criminoso del gruppo Finmeccanica». Un affresco in cui, in Africa come altrove, appaiono, in una frenetica successione quasi difficile da seguire, episodi inquietanti e mai interamente chiariti, dove entrano in gioco non solo la criminalità organizzata ma anche le relazioni tra gli Stati e i loro servizi di intelligence. Basti citare la celebre «megatangente indiana», intorno alla quale le indagini stanno conoscendo nuovi sviluppi: i sospetti che gravano su Finmeccanica non sono probabilmente del tutto estranei all’annosa vicenda dei nostri marò, su cui hanno influito. O ancora un progetto di vendita di fregate italiane al Brasile. La gara, il cui ammontare era di oltre 2,5 miliardi di euro, ha visto Finmeccanica, insieme a un’altra grande azienda di Stato, Fincantieri, battersi contro i francesi e ha toccato da vicino le sorti del terrorista italiano Cesare Battisti, rifugiatosi da tempo nel paese latinoamericano dopo una lunga latitanza in Francia. «L’elemento Battisti – afferma un altro magistrato che conosce molto bene gli intrighi noti e secretati del maggior gruppo nazionale di difesa – si inserisce in maniera molto raffinata nel contesto competitivo.»

Il metodo Finmeccanica e i magistrati del Sud

Sono state e sono molte le procure che hanno cercato di dipanare tale perversa matassa in nome della legalità, a cominciare da quelle di Palermo e di Napoli. A Palermo la ricerca del latitante Palazzolo, avviata da Giovanni Falcone e durata quasi trent’anni, è stata considerata una sorta di passaggio di testimone tra il giudice ucciso a Capaci e coloro che ne hanno raccolto i faldoni con una dolorosa determinazione che andava ben oltre il puro senso del dovere. A Napoli è toccato invece l’arduo compito di decrittare quello che si può definire il «metodo Finmeccanica»: pur se affidate nel tempo ad altre sedi per ragioni di competenza territoriale, quasi tutte le inchieste più strategiche che hanno permesso di comprendere come operava il colosso statale della difesa sono state avviate, con grande acume investigativo, nelle stanze della più grande procura d’Italia, quella del centro direzionale partenopeo.

Il libro rende a più riprese omaggio al lavoro di questi valorosi magistrati del Sud, che hanno permesso di arrestare Palazzolo e, soprattutto, di fare luce sui troppi ingombranti misteri che hanno marcato la vita civile e industriale italiana per de­ cenni. Molti, moltissimi sono stati e sono coloro – rappresentanti delle istituzioni, giornalisti di parte, opinionisti di ogni specie – che lamentano l’ingerenza delle toghe nel campo della politica e dell’economia. È tuttavia fuor di dubbio che la responsabilità delle inchieste contro le quali la politica si scaglia sovente appartiene solo alla politica stessa, sempre impegnata ad autoassolversi in nome di un presunto bene più grande e mai critica nei confronti dei tanti che approfittano del suo lassismo o della sua connivenza. Palazzolo ne è un esempio lampante.

Per contro, Tuccillo è l’emblema della «persona per bene», come l’ha definito uno dei suoi capi, non sappiamo se con reale ammirazione o con scettica incredulità. È stato infatti il solo in Finmeccanica, dove molti sapevano, a denunciare la presenza di un mafioso siciliano latitante in luoghi in cui non sarebbe dovuto essere, a fare cose che non avrebbe dovuto fare. Perché ha parlato? Per ingenuità, per temerarietà o per mania di protagonismo? Nessuna delle tre ipotesi è azzeccata. Tuccillo è un avvocato, un manager esperto dotato di un pensiero strategico rapido e sottile, ai limiti della freddezza. Ha denunciato Palazzolo e le sue presunte connivenze con il gruppo di cui era parte perché convinto che solo il buon lavoro e la competenza possono generare una prosperità reale e durevole nel tempo. La sua scelta, a lungo meditata, gli è costata un prezzo elevato in termini sia personali sia professionali.

Purtroppo, ancora oggi, chi denuncia una colpa viene spesso considerato colpevole, in un’inversione di ruoli tanto assurda quanto generalizzata: colpevole di aver rotto equilibri politici o affaristici oscuri, che servono solo a consolidare gli interessi, la ricchezza e il potere di chi li ha ideati. Certamente non a rafforzare un’impresa, la sua capacità di competere, di creare occupazione, di inventare prodotti nuovi e di affermarsi sui mercati, come l’evoluzione di Finmeccanica prova senza incertezze. In ogni sistema di potere opaco e chiuso al nuovo succede spes­so che qualcuno indichi la luna e tutti guardino il dito.

L’arresto di Vito Roberto Palazzolo, avvenuto a Bangkok nel marzo del 2012, è stato solo un passo avanti in un impervio cammino, che ancora non è terminato. In Italia la partitocrazia continua a dominare, la qualità di chi è ai vertici dello Stato resta discutibile, si preferisce ancora delegare i posti di comando agli amici compiacenti piuttosto che ai migliori. Le mafie, anche se meno cruente e più tecnocratiche di un tempo, resistono a Palermo come a Roma, a Reggio Calabria come a Milano. E troppi le osservano e le lasciano fare, tacendo.

Aveva ben ragione chi temeva, più della cattiveria dei malvagi, il silenzio degli onesti.

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Alessandro Da Rold, Pecunia non olet, Milano, Chiarelettere, 2019

La mafia nell’industria italiana della difesa