di Emanuela Ricci
Donald Trump prende tempo. Il presidente degli Stati Uniti ha momentaneamente congelato la decisione sull’ingresso diretto nel conflitto in corso tra Israele e Iran, annunciando che valuterà la questione “nelle prossime due settimane”. Una finestra di riflessione che, di fatto, lascia Israele da solo davanti alla possibilità di sferrare un colpo decisivo al programma nucleare di Teheran. Una scelta che comporterebbe rischi considerevoli, soprattutto in assenza del supporto operativo americano.
Il vero nodo è il sito di Fordow, scavato sotto una montagna a circa 30 chilometri da Qom e ritenuto strategico per l’arricchimento dell’uranio. La sua profondità – stimata tra gli 80 e i 90 metri – rende difficile, se non impossibile, la sua distruzione con armamenti convenzionali. Solo la GBU-57A/B “Massive Ordnance Penetrator” americana, una bomba da 13,6 tonnellate capace di penetrare strutture fortificate sotterranee, avrebbe il potenziale necessario. Ma il suo impiego richiede un vettore adatto: i bombardieri stealth B-2, in dotazione esclusiva agli Stati Uniti.
Israele, privo di questi velivoli, potrebbe tentare un’operazione rischiosa utilizzando un C-130, aereo da trasporto non stealth e più vulnerabile alle difese aeree iraniane. Un’opzione che ridurrebbe sensibilmente l’efficacia dell’ordigno e renderebbe probabilmente necessario un impiego multiplo delle bombe per compensare la perdita di forza cinetica. Uno scenario che aumenterebbe i margini di errore e i costi umani e strategici.
Nel frattempo, Tel Aviv non esclude un piano alternativo. Yechiel Leiter, ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, ha accennato in un’intervista a Merit TV all’esistenza di un “Piano C”, definendolo “sorprendente” e facendo riferimento a precedenti operazioni israeliane d’intelligence, come l’attacco a Hezbollah del settembre scorso, condotto con ordigni nascosti in walkie-talkie e pager.
Parallelamente, sul campo continua la guerra. L’Iran ha colpito ancora Beer Sheva, nel sud di Israele, ferendo cinque civili e causando danni a diversi edifici residenziali. Nella stessa città, ieri, un attacco missilistico ha colpito l’ospedale Soroka, distruggendone intere sezioni. Il direttore generale della struttura, Shlomi Kodesh, ha confermato che l’edificio era stato evacuato giorni prima e che “non vi erano pazienti all’interno” al momento dell’impatto.
In risposta, l’aviazione israeliana ha bombardato un centro di ricerca e sviluppo di armi nucleari iraniane nel cuore di Teheran, nell’ottavo giorno di guerra, intensificando così l’escalation bellica tra i due Paesi.
Sul piano diplomatico, si muove l’Europa. A Ginevra è previsto un incontro tra il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi e i suoi omologhi di Francia, Gran Bretagna e Germania, oltre all’Alto rappresentante Ue Kaja Kallas. Una riunione convocata su iniziativa di Parigi, Londra e Berlino per tentare di aprire un canale di dialogo con Teheran dopo l’inizio del conflitto.
La Casa Bianca, nel frattempo, continua a invocare la possibilità di una trattativa. La portavoce Karoline Leavitt ha ribadito che “esiste una concreta possibilità di negoziare con l’Iran”, e che il presidente Trump deciderà se intervenire militarmente solo dopo aver verificato l’effettiva volontà di Teheran di sedersi al tavolo.
Ma non tutti sono fiduciosi. Dal Cremlino, Dmitry Peskov ha messo in guardia contro qualsiasi tentativo di cambio di regime in Iran, definendolo “inaccettabile” e foriero di una “escalation globale”. “L’uccisione della Guida Suprema, Ali Khamenei, sarebbe un punto di non ritorno”, ha affermato il portavoce di Putin in un’intervista a Sky News, sottolineando come l’allargamento del conflitto rappresenterebbe “una minaccia per l’intera regione e per la stabilità mondiale”.
Il tempo concesso da Trump al dialogo potrebbe rivelarsi prezioso o illusorio. La tensione resta altissima, il margine per un’escalation è ancora ampio, e l’ombra di Fordow incombe sull’intera diplomazia internazionale.
PER LA TUA PUBBLICITA’ SCRIVI A: info@prpchannel.com
Subscribe to our newsletter!