Quotidiano.net racconta la storia di un incursore dell’esercito italiano insignito della prestigiosa medaglia ‘Medic of the year’, medico dell’anno.
Questo medico incursore che medico non e’ si lancia con respiratore e paracadute direzionale da 8mila metri, sa affrontare una parete di roccia in ascesa invernale, è un subacqueo ad altissima specializzazione ed è in grado di condurre assalti armati in qualsiasi condizione. Infine sa come soccorrere e curare feriti gravi appena usciti da un combattimento, straziati da bombe o ordigni artigianali o massacrati dalla pallottole. Ma non è laureato in medicina.
M. T., 30 anni, milanese, caporalmaggiore incursore del Nono Reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin dell’esercito, gioiello delle Forze speciali (il nome è coperto come prevedono le stesse Forze speciali), è il primo italiano in trent’anni insignito del titolo di ‘Medic of the year’ dalla Scientific Assembly – Special Operations – Medical Association di New York per aver coordinato insieme ad altri specialisti della coalizione un mini ospedale da campo immediatamente dietro la linea del fuoco nella battaglia di Mosul, in Iraq, la località dove c’è la diga protetta dagli italiani. Qui le forze armate irachene hanno strappato l’area all’Isis con migliaia di morti lasciati sul campo e combattimenti casa per casa durati mesi. Lo incontriamo al Carlino.
Come si diventa medici di guerra senza essere laureati in medicina?
“La medicina è una passione che ho sempre avuto. Dopo tutte le professionalità acquisite diventando incursore ho superato la selezione per accedere a tre corsi specialistici della Nato a Pfullendorf, in Germania, poi negli Stati Uniti con stages finali in ospedale”.
Cosa è in grado di fare?
“Sono stato abilitato alle situazioni di Combat medic, che prevedevano, fra l’altro, l’assistenza di un ferito in autonomia fino a 48 ore. Si apprendono tutte le tecniche sanitarie di primo intervento”.
Ora è medico dell’anno.
“Sì, un riconoscimento mai ottenuto dagli italiani. Nell’ambito del premio mi è stata riconosciuta anche una borsa di studio che utilizzerò per completare i miei studi sanitari con una laurea breve in Italia”.
Al Charlotte convention center di New York come è andata?
“Bellissima esperienza. Oltre al premio ho tenuto una conferenza davanti a 600 operatori sanitari, militari e civili, in cui ho esposto la mia esperienza e i casi i più interessanti”.
Dove è stato impiegato in Iraq?
“Ho fatto parte di un nucleo Combat medic con altri membri di Forze speciali della coalizione durante la battaglia di Mosul a supporto delle forze di sicurezza irachene. Siamo stati ad Hamam al Alil e poi in un altro posto dell’area”.
Qual era il vostro compito?
“Abbiamo gestito un punto di raccolta feriti immediatamente dietro le linee del fronte. Eravano in quattro, un nucleo ristretto di colleghi di altre Forze speciali con la stessa specializzazione. Per due mesi siamo stati operativi 24 ore su 24, sette giorni su sette alternando turni di riposo”.
Che tipo di feriti arrivavano?
“Dai 18 ai 50 anni. Noi ci occupavano di quelli delle forze di sicurezza irachene, almeno la metà in Italia sarebbero definiti codici rossi, cioè molto gravi. Il 60% risultavano colpiti dagli Ied, gli ordigni artigianali, circa il 35% da colpi di arma da fuoco. Quindi politraumatizzati”.
Cioè?
“Soldati con amputazioni, ustioni sul 50% del corpo, ferite alla testa”.
Come eravate organizzati?
“In un edificio abbandonato abbiamo allestito una clinica da campo in grado di far fronte atutti i principali interventi salvavita. Ovviamente protetti da un cordone di sicurezza di forze della coalizione”.
Che interventi si facevano?
“Blocco di emorragie, drenaggi toracici, tracheotomie, trasfusioni, attività con ecografo. I feriti arrivavano a qualsiasi ora, senza sosta”.
Il sangue per le trasfusioni come arrivava?
“Dalle donazioni dei soldati iracheni. Per ognuno doveva passare almeno un mese tra un prelievo e l’altro, ma la maggior parte si ripresentava dopo due giorni o anche il giorno successivo sapendo che così si poteva salvare la vita di un collega”.
Come sterilizzavate i ferri chirurgici?
“Con un forno casalingo dentro al quale venivano posti i ferri avvolti nella carta stagnola”.
I racconti dei feriti?
“Raccontavano di una battaglia cruenta, casa per casa. Tutti molto motivati”.
Il giorno che non dimenticherà?
“Era un’alba di maggio. Tutta l’equipe medica era stremata da una notte di lavoro senza sosta. Ci portarono venti feriti in un colpo solo, straziati dagli Ied. C’era sangue ovunque. L’impatto era superiore alla nostra capacità di assistenza immediata, ma ce la cavammo ugualmente”.
Tornerebbe in azione in un ospedale di guerra?
“Non dipende da me. Io sono un incursore, quindi sempre pronto ad entrare in azione”.