L’economia può far cessare la guerra. La Russia è costretta ad aumentare il tasso al 12% per frenare la caduta del rublo

La Banca centrale russa ha alzato poche ora fa il suo tasso di riferimento al 12%, all’indomani dalla caduta a picco del rublo.

La decisione di aumentare il suo tasso di interesse chiave al 12% dall’8,5% precedente “è stata presa per limitare i rischi per la stabilità dei prezzi”, ha dichiarato la banca centrale russa in un comunicato diffuso dopo aver convocato una riunione straordinaria questa mattina.

L’FMI aveva previsto mesi fa per la Russia una crescita dell’1,5%, più di Germania, Francia, Germania e Regno Unito. Le sanzioni occidentali, a quanto pare, non avevano intaccato l’economia anche se il Paese in guerra da 19 mesi con l’Ucraina. Le esportazioni di gas e petrolio sono continuate indisturbate verso l’Asia mentre all’interno è aumentata la produzione dell’industria pesante a sostegno dello sforzo bellico. Tuttavia anche in Russia, per combattere la curva inflattiva dell’economia a livello globale, si è dovuti ricorrere ad aumentare il deficit tramite finanziamenti esteri.

Oggi con la decisione presa dalla Banca centrale russa di alzare il suo tasso di riferimento al 12% si cerca di frenare la repentina caduta del valore del rublo sui mercati internazionali (un solo dollaro vale circa cento rubli). La misura appena varata da Elvira Nabiullina, presidente della Banca centrale russa, vuole pertanto restringere la libertà di circolazione dei capitali attraverso le frontiere del Paese.

La verità della debacle dell’economia moscovita è nella spesa militare eccessiva che impegna le casse dello Stato ben oltre un terzo del suo bilancio.

Lo scorso anno lo sfrozo bellico assorbiva il 10% in più rispetto al 2021, ma quest’anno ha registrato già solo nel primo semestre un livello di spesa non molto inferiore a quello di tutto il 2022. Tutto è finanziato in deficit, con un disavanzo atteso al 3,7% del Prodotto lordo.

Poi c’è la questione del costo del petrolio che è stato imposto, a dicembre scorso dal G-7, a 60 dollari al barile, molto inferiore rispetto ai prezzi prima della guerra. La Russia ha dovuto quindi incentivare la vendita di petrolio (a prezzi più alti del mercato) ai paesi asiatici vittime anch’essi di sanzioni occidentali: ma l’attività non ha garantito introiti proporzionali alle esigenze di spesa interna.

Gli investitori russi, scrive Fubini su corsera, hanno perso fiducia nel loro Paese e tendono a non convertire in rubli né a riportare in patria i proventi dell’export. La sommatoria di situazioni apparentemente ininfluenti rischia però oggi di far saltare il banco ai conti del Cremlino a fronte di una guerra che continua in intensità e durata.

Qualche apertura alla via diplomatica, prodromica alla pace, potrebbe avvenire nel prossimo incontro tra Putin e il leader turco Erdogan che si incontreranno in Turchia per discutere sullo sblocco delle linee marittime per l’esportazione del grano ucraino.

Altro cedimento si intravede anche nell’opinione pubblica americana che inizia ad essere insofferente alle ingenti risorse impegnate dall’amministrazione Biden per la guerra in Ucraina, ad oggi circa 50 miliardi di dollari.

Chissà, forse sarà proprio l’economia a far cessare la guerra?

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