Sotto mentite spoglie conduceva una vita normale alla luce del sole. Così Matteo Messina Denaro ha vissuto l’ultima parte della sua latitanza

(di Francesco Matera) l boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. La notizia, in poche ore, ha fatto il gito del mondo.

Un perfetto sconosciuto, sotto mentite spoglie ha vissuto la latitanza alla luce del sole a Palermo, sotto gli occhi di tutti con il nome di Andrea Bonafede. Il vero Matteo Messina Denaro, nel corso degli anni, ha cambiato i tratti somatici, tramite chirurgia plastica nei Paesi dell’Est dove è riuscito anche a cancellare le proprie impronte digitali. Era da tutti conosciuto come Andrea e scambiava regolarmente messaggi di affetto con i suoi amici, pazienti della clinica dove era in cura.

Andrea Bonafede, però, esiste davvero perchè è un parente di un antico favoreggiatore del boss. Una genialità, perchè esiste una carta d’identità regolare come anche una tessera sanitaria in tutti i database della Sanità pubblica. Peccato che il sistema della mutevole identità, ritenuto geniale ed infallibile, ha poi condotto il Messina, diritto, diritto nelle mani della giustizia.

I mafiosi, sotto intercettazione, parlavano con disinvoltura tra loro, pur sapendo di essere intercettati, delle malattie del capomafia. Ingenuità o consapevolezza di tradire, ovvero consegnare così il boss? L’inchiesta è partita da lì. E indagando sui dati della piattaforma del ministero della Salute che conserva le informazioni sui pazienti oncologici, si è riusciti a stilare una lista di pazienti sospettati. Un nome ha fatto saltare sulla sedia gli inquirenti: Andrea Bonafede, avrebbe subito un anno fa un intervento al fegato in Sardegna. Ma nel giorno in cui doveva trovarsi sotto i ferri, i magistrati hanno scoperto cha un’altro Bonafede era a casa sua a Campobello di Mazara. E allora il sospetto che il latitante usasse l’identità di un altro si è fatto forte. La prenotazione di una seduta di chemioterapia a nome di Bonafede ha fatto scattare il blitz di ieri.

Mi chiamo Matteo Messina Denaro“, così il boss stragista, ultimo baluardo dei corleonesi, dice con fare arrogante al carabiniere del Ros che sta per arrestarlo. Finisce così la latitanza trentennale del padrino di Castelvetrano, finito in manette alle 8.20 mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, una delle più note della città.

E’ stato trasportato nella caserma Dalla Chiesa, sede della Legione, dove nel pomeriggio il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, l’aggiunto Paolo Guido, il generale del Ros Pasquale Angelosanto e il comandante palermitano del Raggruppamento Speciale Lucio Arcidiacono hanno tenuto una conferenza stampa.

In mattinata in Procura era arrivata il premier Giorgia Meloni che ha voluto incontrare i magistrati per congratularsi con loro. I pm, con una punta d’orgoglio, sottolineano che è stato preso grazie alla stessa strategia che portò all’arresto del boss Bernardo Provenzano. Prosciugare l’acqua attorno al latitante, disarticolando la rete dei favoreggiatori. Favoreggiatori anche eccellenti: “una fetta della borghesia lo ha aiutato”, dice il procuratore de Lucia.

Ci è apparso in buona salute e di buon aspetto non ci pare che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere”, ha spiegato l’aggiunto di Palermo Paolo Guido alla conferenza stampa. “Era di buon aspetto, ben vestito, indossava capi di lusso ciò ci induce a dire che le sue condizioni economiche erano buone”, ha aggiunto. “Ovviamente sarà curato come ogni cittadino ha diritto essere curato“, ha concluso. Al momento della cattura indossava anche un orologio molto particolare del valore di 30-35mila euro.

Le indagini continuano e perquisizioni sono in corso nel trapanese. Gli inquirenti cercano il nascondiglio che avrebbe ospitato il boss negli ultimi mesi e potrebbe custodire i segreti contenuti nella cassaforte di Totò Riina portata via dalla casa di via Bernini, mai perquisita.

Matteo Messina Denaro è stato catturato grazie al metodo Dalla Chiesa, cioè la raccolta di tantissimi dati informativi dei tanti reparti dei carabinieri, sulla strada, attraverso intercettazioni telefoniche, banche dati dello Stato, delle regioni amministrative“, ha detto il comandante dei carabinieri Teo Luzi, arrivato a Palermo.

La storia dell’ultimo boss dei corleonesi

Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Matteo Messina Denaro era latitante dall’estate del 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l’inizio della sua vita da Primula Rossa. “Sentirai parlare di me – le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità”. Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine.

Sotto mentite spoglie conduceva una vita normale alla luce del sole. Così Matteo Messina Denaro ha vissuto l’ultima parte della sua latitanza